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L’OPERA: “Il canto che viene dall’anima.”

Il canto che viene dall’anima. Conversazione con Marina Rebeka

 

April 2020
Paolo Piro

 

Cantante tra le più acclamate del momento, Marina Rebeka è una cosa sola con Violetta. Dall’esordio (2007) ad oggi, i grandi teatri hanno acclamato le sue interpretazioni de La Traviata. Dal Met all’Opéra di Parigi, dal Covent Garden alla Scala, il soprano lettone ha acceso gli entusiasmi del pubblico e della critica, per l’omogeneità della tessitura, la ricchezza di sfumature, il legato magistrale, gli acuti sfavillanti, la precisione delle colorature; oltre alla credibilità drammatica, quell’adesione alla parola scenica che richiede una dizione perfetta e rivela un’intimità col personaggio.  

Basta ascoltare La Traviata – prima registrazione in studio dell’opera da 26 anni –, pubblicato nel 2019 da Prima Classic, l’etichetta indipendente che il soprano ha fondato, con l’intenzione di superare certi limiti del mercato discografico.  

Ma l’estensione della tessitura e la flessibilità dell’emissione le permettono di spaziare dal barocco al belcanto, passando per Verdi e l’opera francese, a cui Marina Rebeka ha appena dedicato il suo ultimo album, “Elle”: un’antologia delle grandi eroine di Charpentier,
Massenet, Gounod, Bizet, Debussy. Al culmine di una stagione folgorante, gli International Classical Music Awards l’hanno consacrata “artista dell’anno”, elogiando la perfezione della sua arte vocale e la sua travolgente sensibilità drammatica.  

Marina, purtroppo la serata di premiazione è stata annullata.  

Dovevo andare a Siviglia il 30 aprile. Era previsto un concerto con gli altri vincitori. È una bella gratificazione dopo un anno importante: La Traviata in disco, Simon Boccanegra a Salisburgo, il debutto nei Pagliacci a Vienna… Ma non è l’unico impegno che salta per colpa del virus.  

Anche Il Pirata a Dortmund?  

La Konzerthaus ha cancellato tutto fino a fine maggio. Non vedevo l’ora di fare la mia prima Imogene. Già l’anno scorso ero pronto per cantarla a Ginevra, poi mi sono ammalata. Sono sfortunata con quest’opera.  

Però c’è un’altra opera di Bellini che ti ha portato fortuna.  

Norma. Devo molto a Norma. La prima volta l’ho fatta a Trieste nel 2016, poi al Met nel 2017 e pochi mesi fa a Tolosa, per l’apertura di stagione. Mi ha portato tanto successo. A me risulta meno difficile di Imogene: quattro uscite in tutto, una tessitura più acuta, senza tante discese nel grave. Norma è anche più ricca di sfaccettature: è madre, amante, figlia, profeta, amica; oltre ad essere una guerriera che guida il suo popolo. Mi piace la sua complessità. E poi è la prima opera a cui ho assistito.  

Dove?  

A Riga, la mia città natale. Avevo tredici anni. Mio nonno era appassionato e mi portò all’opera. Quella sera decisi che avrei fatto la cantante. Passarono 24 anni prima che Norma tornasse a Riga. E stavolta sul palco c’ero io.  

Tutt’altro è il repertorio del nuovo album: tredici arie di opera francesi.  

Ho sempre amato questo repertorio. Serve un dialogo intimo e costante con l’orchestra, che dipinge ogni volta un’atmosfera con i colori della strumentazione. Pensa a Thaïs nell’aria “Dis-moi que je suis belle”, mentre invoca Venere: sugli arabeschi del flauto pare di sentire un odore di incenso.  

Parli bene il francese?  

Non è una lingua facile, ma cantarla è ancora più difficile. Ho lavorato sulla pronuncia con un coach. È indispensabile trovare l’accento e il colore giusto, per esprimere un’intenzione. Thaïs, Marguerite, Juliette sono ruoli che evolvono da un atto all’altro, e man mano richiedono una vocalità più affermata, un tono più drammatico.  

Li hai già cantati sul palcoscenico?  

La maggior parte sì. Di Carmen invece ho solo cantato Micaela. Per questo nel disco ho voluto inserire l’Habanera: oltre ad essere un brano famosissimo, mi fa pregustare un ruolo che vorrei fare un giorno.  

E Manon?  

Ho avuto una proposta anni fa, ora temo che sia troppo tardi. Per via della gavotte del terzo atto, molti pensano che serva un soprano più leggero. Invece Manon è come Violetta: oltre agli acuti e alle colorature, c’è un dramma in carne e ossa. Lo stesso Dumas, nel romanzo, fa riferimento a Manon Lescaut: la donna che non sa cosa scegliere, tra il lusso e l’amore.  

È il quarto disco che produci con Prima Classic. Perché hai voluto un’etichetta tutta tua?  

Voglio decidere cosa registrare e quando. Devo sentire una motivazione artistica per fare un disco. Il cd è un’opera d’arte, nasce da un progetto personale che si riflette in tutto: la ripresa del suono, il look della copertina, i testi del libretto. Spesso le grandi case discografiche privilegiano le tendenze del mercato. Ora mi sento più libera, e sono contenta di condividere questo progetto con mio marito.  

Come ti aiuta?  

Edgardo è ingegnere del suono. Ha lavorato con grandi cantanti pop in tutto il mondo oltre a registrare musica classica. Ha un talento speciale per capire le caratteristiche di una voce e renderla tecnicamente in modo ottimale. Dopo un Faust a Riga mi fece ascoltare la registrazione che aveva fatto: mi misi a piangere, per la prima volta riconoscevo la mia voce. Grazie a lui ho approfondito le tecniche di ripresa sonora e insieme ci siamo lanciati in quest’avventura. Registreremo anche altri artisti, ingiustamente ignorati dalle grandi etichette.  

Come si svolgono le sessioni di studio?  

Servono diversi giorni consecutivi. Per ogni giornata faccio un’agenda raggruppando i brani più simili per stile e tessitura. Per esempio, in questo album ci sono due tipi di arie: i primi giorni ho affrontato quelle più drammatiche, lasciando quelle più leggere per la fine, quando la voce era già provata. È un tour de force: dieci minuti di disco richedono circa tre ore di registrazione. Ripeto diverse volte ogni brano, poi lo passiamo al microscopio e scegliamo, combiniamo, bilanciamo. Sulla scena conta l’impatto globale, in disco invece ogni dettaglio è importante.  

Chi ti ha insegnato a cantare?  

Ho messo le basi in Lettonia, poi sono andata a studiare in Italia. Mi dissero di ricominciare tutto da zero. A Roma ho frequentato sia l’Accademia di Santa Cecilia sia l’Accademia Internazionale delle Arti. Due professoresse di canto, due visioni opposte: una mi vedeva come Tosca e Butterfly, l’altra mi consigliava i Puritani e la Regina della Notte.  

Chi delle due aveva ragione?  

Seguivo i consigli di entrambe e cantavo tutto. Risultato: persi la voce. A 25 anni riuscivo a cantare a mala pena una terza, le alter note traballavano o restavano in gola. A quel punto sentii quanto mi mancasse un vero maestro.  

E poi?  

Sono tornata nel mio Paese per riflettere, durante le vacanze. Ero a pezzi, scoraggiata e senza soldi per pagare altre lezioni. Il mio sogno si era sbriciolato. Mi sono rimessa a studiare da sola. Leggevo libri di tecnica vocale e seguivo masterclass su youtube. Nota dopo nota, ritrovai la mia voce.  

Caparbia!  

Dopo tanti sacrifici, non potevo rassegnarmi. I miei genitori mi avevano finanziato gli studi all’estero, avevo un prestito in banca. Non potevo accettare che fosse tutto inutile. Ho fatto l’autodidatta: di volta in volta ho scelto il meglio di quello che ricevevo, ciò che era più adatto al mio strumento. Poi sono tornata in Italia, ho partecipato a concorsi di canto e ho fatto un’audizione per l’Accademia Rossiniana, a Pesaro. Là ho cantato Madama Cortese e la Contessa di Folleville del Viaggio a Reims e ho avuto la fortuna di incontrare il mio primo agente.  

A Pesaro imperava Alberto Zedda…  

Un grande, un maestro come pochi. Era molto severo con me, non aveva pietà. Che soddisfazione quando per la prima volta mi fece un complimento! Noi allievi lo chiamavano Jedi, lui mi chiamava Marinuccia. Abbiamo continuato a scriverci regolarmente. Ricordo
una discussione con lui a Valencia, a proposito di Gilda del Rigoletto, che riteneva indispensabile per un soprano come me. A me invece non è mai piaciuta.  

Obiezioni contro il Trovatore?  

Nessuna. Amo Leonora, faccio il mio debutto a Vienna a giugno, poi la canterò l’anno prossimo a Parigi.  

Hai qualche appuntamento in Italia?  

Quest’estate: Traviata alla Scala, poi all’Arena di Verona, nell’ultima regia di Zeffirelli. Amo quell’atmosfera misteriosa mentre si prova di notte, nell’anfiteatro deserto, sotto le stelle. Poi a ottobre farò un recital alla Scala: ho scelto un repertorio originale, con una sorpresa del tutto inedita. Sarà in parte il programma del mio prossimo album, su cui sto lavorando in questi giorni di quarantena.  

Come vivi questa vacanza forzata?  

In famiglia. Abitiamo in una casa grande, circondata dalla campagna, non lontano dal Baltico. Qui gli inverni sono lunghi e freddi. Ora le giornate si allungano e torna il sereno. Lavoro e aiuto mia figlia di nove anni a fare i compiti. È un momento privilegiato, di solito sono in giro. Non ho mai tanto tempo per stare con Katrina.  

Sarà cantante anche lei?  

Per ora vuole fare la pittrice. Però frequenta una scuola musicale, suona il pianoforte e il flauto e canta in un coro di bambini. La musica serve a sviluppare il cervello, è come la matematica.  

Perché i ragazzi non conoscono l’opera?  

L’amore per la musica nasce da piccoli. Serve un buon insegnamento, che spesso manca. E poi i teatri dovrebbero proporre produzioni “normali”, senza violenza, sangue, sesso: un Elisir d’amore come è scritto, una Bohème che non sia su un’astronave. Altrimenti, come sperare che l’opera avrà un pubblico?  

Colpa dei registi contrari alla tradizione?  

Non si tratta di essere prigionieri del passato, ma di comprendere il senso di un’opera, i sentimenti dei personaggi. Un buon regista è innanzitutto un bravo psicologo. Deve capire perché il librettista ha suggerito una didascalia, o il compositore un’espressione. Il cantante porta l’opera allo spettatore. Perché studiare lo stile, l’interpretazione, le lingue, se il regista può fare a meno del libretto e dello spartito? Ho appena lavorato con una regista che fa della preghiera di Norma un’esperienza surreale, un conflitto tra donna e uomo.  

Pensi alla regia di Yona Kim ad Amburgo?  

Due settimane prima della prima ha smesso di parlare con me. Voleva che cantassi “Casta Diva” guardando Pollione. Poi, su “Tempra, o Diva”, dovevo guardare Oroveso. Per lei non c’è una dimensione soprannaturale, ma allora l’eroina è ridotta a una schiava. Mentre canto “Ei tornerà”, lo sguardo del pubblico è attirato da una comparsa che si taglia le vene spargendo un fiume di sangue. Così lo spettatore, abbagliato dal trash, finisce per ignorare il messaggio di un’opera d’arte.  

Carmen assassina a Firenze, Manon fucilata a Parigi: il femminismo giustifica ogni licenza?  

Il rispetto della donna è un’altra cosa. Il rischio è uccidere l’amore. Chi rispetta la conversione di Manon, che alla fine rimpiange l’amore di Des Grieux e gli chiede perdono? Tanti registi fuggono il sentimentale come la peste e finiscono per pervertire i sentimenti dei personaggi. Quanto al femminismo, è finita l’epoca della sottomissione. Ormai, al tempo del “Me Too”, le donne possono chiedere giustizia.  

Anche a costo di demolire un colosso come Domingo?  

Placido è un gentleman, ho lavorato tanto con lui e provo affetto per lui e la sua famiglia. Con me è sempre stato inappuntabile, e parlo solo della mia esperienza. Ha fatto bene a scusarsi, dando una buona lezione ad altri: non è lecito approfittarsi delle donne.  

Pagheranno anche gli altri?  

Prima o poi la verità viene fuori. Quando uno chiude la porta e resta solo, in coscienza, sa ciò che ha fatto. Perciò questo period di isolamento può essere utile. È come una purificazione. Dopo ci sentiremo come alla fine di una guerra. Avremo voglia di luce, di aria pulita, di amicizia, di bellezza.  

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